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AUTISMO E APPROCCIO DIR

04-01-2024 18:05

Gianni Manzi

PUBBLICAZIONI,

AUTISMO E APPROCCIO DIR

di Giovanni Manzi

Autismo: cenni di definizione
L’autismo è un complesso disturbo dello sviluppo caratterizzato da ritardo mentale, più o meno marcato, problemi nell’interazione sociale, nella comunicazione linguistica e nelle abilità di ordine emotivo, cognitivo, sensoriale e molto spesso anche motorio.
Quasi sempre si osservano anche tutta una serie di comportamenti particolari, per es. il girare su se stessi, allineare oggetti, ripetere parole ascoltate altrove senza una vera intenzione comunicativa, ma occorre tener presente come questi sintomi derivino da problematiche più profonde della relazione, della comunicazione e dell’attività di pensiero. Occorre sempre considerare anche che le abilità e le disabilità specifiche di un soggetto con autismo variano moltissimo a seconda del tipo di autismo in cui rientra: per questa ragione è sempre più esatto e confacente parlare di “disturbo dello spettro autistico”.
La causa dell’autismo, in senso generale, è ancora quasi del tutto sconosciuta; numerosi studi confermano la presenza di fattori genetici, per es., i gemelli monozigoti hanno maggiori probabilità di incappare nel disturbo rispetto agli eterozigoti, storicamente si è ritenuto insomma che siano fattori di natura biologico-genetica a determinare l’insieme dei sintomi riconducibili all’autismo.
È inoltre verosimile credere siano anche coinvolti fattori immunologici, metabolici ed ambientali. La cornice teorica più utile per determinare i fattori causali alla base dell’autismo è sicuramente una cornice integrata, che riconosce come all’origine del disturbo vi siano una molteplicità di fattori interagenti.
I disturbi dello spettro autistico comportano sempre difficoltà nell’entrare in rapporto con gli altri, nello stabilire relazioni interpersonali più o meno profonde, nel comunicare (verbalmente o in altro modo) e nell’organizzare il pensiero. Se le tre abilità di base – creazione di rapporti intimi, partecipazione e scambio di gesti emotivi ed uso delle prime parole o dei primi simboli- non sono presenti o mostrano profonde alterazioni, potrebbe essere necessario prendere in considerazione l’ipotesi che il bambino mostri i segni di un disturbo dello spettro autistico. Il grado di compromissione di queste competenze fondamentali rispetto all’età potrebbe definire il livello di gravità del disturbo stesso.
Esistono anche molte manifestazioni secondarie ma ugualmente importanti per riconoscere l’autismo, tra le più tipiche figura la tendenza alla perseverazione nel riproporre una particolare azione, l’auto- stimolazione (per es. sfregare una parte del corpo contro il muro) e la stereotipia, consistente nel ripetere incessantemente le stesse parole o gli stessi movimenti.

Sintomi di questo tipo potrebbero indicare la presenza di DSA (Disturbo Spettro Autistico) ma è importantissimo sottolineare come non debbano in nessun caso costituire l’unica base per giungere ad una diagnosi: elemento-chiave per la formulazione di una diagnosi adeguata (e per conoscere i reali problemi della persona) è stabilire il livello di acquisizione delle tre abilità fondamentali accennate in precedenza: una delle cause principali delle numerose diagnosi errate di DSA è sicuramente il tempo insufficiente dedicato ad osservare il bambino mentre interagisce con persone con cui abbia famigliarità.
Un fatto ormai assodato e supportato ampiamente dalla ricerca, nonché dalla più autorevole letteratura scientifica, è che i DSA non devono mai essere considerati disturbi statici, essendo questi eminentemente dinamici e soggetti ad evoluzione nel corso del tempo.
Un tratto (o eventualmente una sindrome) statico è contrassegnato da fissità ed immutabilità: la persona che lo possiede rimarrà così per l’intera durata della propria vita, quali che siano le caratteristiche dell’ambiente, i contesti o le circostanze. I tratti dinamici, legati ad una molteplicità di fattori, sono invece soggetti a modificazione.
Le tre abilità di base di cui si è detto in precedenza costituiscono senza ombra di dubbio processi dinamici, possono cambiare e di fatto cambiano, in misura maggiore per alcuni bambini rispetto ad altri e con alcuni programmi di intervento piuttosto che con altri.
Non c’è unanime accordo sul grado in cui sia possibile influire positivamente su queste abilità, sia a livello generale sia a livello del singolo individuo, ma rimane accertato che le competenze all’interno di queste abilità possano essere modificate in misura rilevante e che la prognosi possa sempre contemplare progressi effettivi.
Quando in un individuo con autismo non si verifica alcun progresso nel tempo, la causa risiede sempre nella mancanza di un adeguato piano di intervento che integri sapientemente l’ambito famigliare, quello scolastico e quello più prettamente terapeutico.
Più che cercare di predire i progressi del bambino facendo riferimento a criteri diagnostici rigidi è quindi sempre una scelta migliore adoperarsi al fine di predisporre un programma di intervento ottimale per poi osservare il soggetto imparare e sentirsi gratificato per i progressi ottenuti.

Il modello DIR (Floor Time)
In passato erano due i modelli cui si ispiravano gli interventi terapeutici per i bambini con DSA. Il primo modello comportamentale interveniva sui sintomi e sui comportamenti superficiali, per es. l’aggressività o la disubbidienza.
Il secondo approccio si concentrava invece su abilità cognitive circoscritte, prendendo come riferimento le capacità previste per ciascuna specifica età. Poiché si riteneva che per i bambini autistici

la forma più efficace di apprendimento avvenisse attraverso la ripetizione, si faceva eseguire loro una serie di esercizi per memorizzare particolari sequenze.
La costante ricerca scientifica ci permette oggi di valicare questi confini andando molto oltre.
Dal momento che ogni bambino e rispettiva famiglia hanno una loro unicità, una particolare costellazione di punti di forza e di punti di debolezza, sono stati sviluppati tanti approcci su misura, che comportano anche un coinvolgimento molto maggiore della famiglia rispetto a ciò che avveniva in passato.
Uno tra questi approcci è il “Modello DIR” (Developmental Individual difference, Relationship based Model) creato da Stanley Greenspan e Serena Wider1 nel 1997. È basato sul concetto di sviluppo che tiene conto delle differenze individuali nel modo in cui ogni bambino riceve informazioni provenienti dal mondo esterno, del modo in cui le elabora e risponde, elementi chiave per la costruzione di pattern per i rapporti con il mondo esterno ed interpersonali. Si tratta anche di un modello centrato sulla creazione di relazioni emotive significative come promotrici di sviluppo e di apprendimento durevole. Il modello DIR si basa su un’attenta osservazione dell’interesse naturale del bambino, delle sue motivazioni e del suo peculiare modo di interagire con l’esterno, per consentire agli operatori ed altri adulti significativi di entrare nel suo mondo per portarlo lentamente verso un universo di condivisione. Questo è impossibile se non si conosce il profilo individuale di ciascun bambino, proprio per questo si abbandona un’ottica generalista per entrare nell’universo di ogni singolo soggetto elaborando un intervento veramente ‘ad personam’, in perfetta consonanza con il profilo individuale di ‘quel’ bambino.
Secondo il modello DIR il bambino deve imparare a mantenere un rapporto di intimità con il suo caregiver, ed essere in grado di comunicare attraverso due vie: la comunicazione gestuale, all’inizio, poi la comunicazione verbale al fine di raggiungere e padroneggiare i simboli ed essere in grado di collegare idee diverse e diversi stati emotivi in una rete complessa, cognitiva ed affettiva. L’operatore avrà un ruolo da facilitatore, aiuterà il bambino a raggiungere il massimo livello possibile in tali competenze.
Le capacità funzionali emozionali sono, da un lato, una base fondamentale da cui partire per realizzare uno sviluppo sano, dall’altro daranno al bambino impliciti strumenti di contrasto contro i sintomi centrali dell’autismo: un bambino coinvolto sarà giocoforza meno isolato, un bambino che impara a comunicare diverrà meno rigido, interiorizzerà una più vasta conoscenza del suo mondo circostante, migliorando ogni sua performance cognitiva.

1 Stanley I. Greenspan è uno psichiatra infantile di fama mondiale, tra i massimi esperti nel trattamento dell’autismo. Insegna psichiatria e pediatria alla Georgia Washington University Medical School.
Serena Wieder è una psicologa clinica specializzata nella diagnosi e nel trattamento dei disturbi emotivi e dello sviluppo nella prima infanzia.

Facendo riferimento ai risultati delle ricerche più recenti, il modello DIR propone un intervento intensivo, sistemico ed allargato, giacché coinvolge tutti i setting della vita del bambino. Tiene conto che per raggiungere un realistico traguardo di riabilitazione non basta qualche ora di psicomotricità o di logopedia, perché la grande complessità del disturbo autistico implica un programma a tutto tondo.
Nel modello DIR è senza dubbio la tecnica del “Floor Time” ciò che ha reso così famoso questo approccio, al punto che molto spesso, in modo non del tutto esatto perché parziale, il modello stesso viene denominato “Modello Floor Time”.
Il “Floor Time” parte da una attenta osservazione dell’interesse naturale del bambino: sarà proprio l’osservazione di questo aspetto che darà all’operatore la chiave per entrare nel suo mondo.
Entrare nel mondo dei bambini senza pretendere che loro facciano ingresso nel nostro è il primo obiettivo del “Floor Time”, significa entrare gradualmente nella realtà del bambino per introdurre progressivamente sfide e per condurre il bambino alla condivisione, affinando via via le sue capacità funzionali ed emozionali. I sintomi autistici d’altro canto sono visti non come aspetti deficitari ma come inedite opportunità da sfruttare per interagire.
Approfittare quindi di ciò che il bambino fa e trasformarlo in elemento di comunicazione diverrà uno strumento di lavoro essenziale per educatori e genitori; i genitori in particolare saranno spinti e sempre più invogliati a scoprire il potenziale dei propri figli, ad essere sempre più creativi traendo vantaggio dal quotidiano per trasformarlo in materiale su cui operare.
La base di un intervento globale è generalmente il programma da svolgere a casa, che comprende i seguenti elementi:
-    Interazioni di “Floor Time”: i genitori ed eventualmente gli educatori, seguiranno per circa venti minuti l’iniziativa spontanea del bambino, più volte al giorno, queste interazioni saranno del tutto naturali ed adattate all’unicità che lo contraddistingue. Iniziando dalle abilità che il bambino padroneggia verrà gradualmente aumentata la richiestività, in vista della costante promozione delle sei abilità di base: attenzione, relazione interpersonale, comunicazione, problem solving, uso creativo delle idee ed uso logico delle idee;
-    Gioco con i coetanei: quando il bambino inizia ad interagire (partecipa ad un flusso di comunicazione reciproca) con gli adulti, è possibile organizzare qualche incontro di gioco con coetanei: l’obiettivo è che il bambino impari a comunicare anche con loro. Inizialmente gli adulti dovranno svolgere un ruolo di coordinamento delle interazioni e delle attività di gioco, l’obiettivo è fare si che il bambino apprenda sempre più a socializzare;
-    Interazioni di problem solving: queste interazioni, pur facendo leva sulle emozioni del bambino, comprendono situazioni semi-strutturate per facilitare l’acquisizione di tipologie specifiche di abilità

di elaborazione di competenze emotive, cognitive, linguistiche e motorie. L’adulto sarà colui che prende l’iniziativa, coadiuvato da specialisti del settore psicopedagogico e della psicomotricità. I diversi esercizi potranno essere eseguiti anche a scuola;
Per quanto attiene alle aree più strutturate, queste potranno essere attività di cui occuparsi:
-    Lavoro sulle capacità motorie, sensoriali e spaziali: allenamenti fisici quotidiani con esercizi motori e sensoriali, adeguato coinvolgimento corporeo, esercizi percettivo-motori, giochi di ricerca che richiedono anche abilità di pensiero;
-    Lavoro sull’equilibrio, coordinazione ed integrazione destra-sinistra;
-    Attività ritmiche;
-    Esercizi di modellazione;
-    Esercizi visuo-spaziali.
Il modello DIR comprende anche un programma linguistico specifico, denominato “insegnamento del linguaggio basato sull’affetto” (Affect Based Language Curriculum)2.
Anche questo programma è stato ideato per essere praticato dai genitori e/o dagli altri adulti di riferimento a casa.
L’”Affected Based Language Curriculum” (ABLC) si basa sul fatto che l’emozione è di fondamentale importanza per l’acquisizione e per l’uso stesso del linguaggio.
Senza affetto e senza coinvolgimento emotivo il bambino (normodotato ed a maggior ragione se autistico) farà molta fatica a sviluppare un linguaggio dotato di scopo e di preciso significato.
Per questo l’ABLC comprende una serie di attività strutturate e semi-strutturate da praticare all’interno di un clima di elevato livello affettivo e motivazione così da poter rapidamente generalizzare le competenze apprese; assembla gli aspetti più efficaci degli approcci strutturati alle caratteristiche degli approcci basati sulle emozioni con lo scopo di gettare le basi per saper creare una relazione, quindi comunicare e pensare nel giusto modo.
In questo programma gli operatori creano un ambiente in cui il bambino viene piacevolmente coinvolto in una particolare attività prima di passare all’insegnamento di una nuova ulteriore abilità linguistica, inoltre, passo passo, l’adulto stabilisce e mantiene alto il livello di comunicatività con lui. L’ABLC pur trattando anche gli aspetti più tradizionali del linguaggio (fonologia, sintassi, grammatica e semantica) va molto oltre gli approcci tradizionali occupandosi anche di pensiero riflessivo ed astratto.

 


2 Si veda: Serena Wieder, “The affected based language curriculum: an intensive program for families, therapists and teachers” (2005)

Essere autistici non significa essere meno umani, ma essere umanamente diversi. Quello che per altre persone risulta essere scontato e del tutto normale diventa arduo ed incomprensibile per un autistico e viceversa.
Si potrebbe dire che le persone con autismo sono meno equipaggiate per riuscire a sopravvivere in un mondo per loro ostico e arduo da comprendere, un po’ come potrebbe capitare ad un extraterrestre che si sia perso senza possedere una mappa che gli permetta di capire dove sta andando.
Ma nonostante le problematiche siano numerose e profonde, la personalità, l’individualità di una persona autistica rimane intatta, di conseguenza anche la dignità, che implica il diritto ad apprendere in vista del raggiungimento di una sempre maggiore e migliore autonomia e di una più elevata qualità di vita.
Anche un autistico deve poter dare valore alla propria vita e questo implica anche il diritto di vedersi accettato per ciò che è, senza che tutto ciò che si fa per lui e con lui sia, in modo più o meno recondito, volto a cercare di “guarirlo”, vale a dire cambiarlo rispetto a ciò che è e che sempre sarà.
Occorre quindi concedere alle persone autistiche (e disabili, in generale) la fondamentale possibilità di essere loro stesse nei modi a loro più naturalmente peculiari, riconoscendo senza ipocrisie la loro effettiva diversità, senza però che questo le faccia passare per “persone guaste” rispetto alle altre.
Per questo tutta la società deve impegnarsi ed interrogarsi sulle proprie convinzioni e ridefinire le proprie ottiche e le proprie posizioni errate, così da gettare ponti nei confronti di persone il cui funzionamento batte vie diverse, più complesse e di più difficoltosa lettura.
Il modello a cui si è brevemente accennato nel corso di questa trattazione, così come molti altri, tende a facilitare l’apprendimento ed in senso più ampio lo sviluppo, partendo, come si è detto, dalla situazione del singolo bambino. Il partire dai suoi interessi, per idiosincratici che siano, senza bloccarli, ma ritrovando il modo più opportuno per sfruttarli ed estenderli, si è dimostrata una via favorevole che vede bambino, educatori e genitori unire le forze verso un importante traguardo comune.

 

Giovanni Manzi

Dott. Giovanni Manzi - Pedagogista, Specialista in Pedagogia Clinica e in Pedagogia Giuridica